Dopo due ore passate nello studio di Sofia Meda, pur conoscendola da tempo immemorabile, sono un po’ disorientato e le chiedo: “Ma insomma tu cosa scrivi sul biglietto da visita?”. Mi passa sorridendo una strisciolina di carta con un cartoncino sovraimpresso a mano: ci sono il numero di telefono, la mail e nessun’altra indicazione. In questo gesto ritrovo la sintesi del mondo creativo di Sofia: indefinibile, senza confini. L’unica certezza, forse, è che il prossimo progetto, meglio, la prossima modalità espressiva, sarà diverso dalla precedente. Abbiamo provato a ripercorrere insieme il suo percorso di formazione. Comincia nello studio di Aldo Rossi, caro amico e compagno di lavoro del padre Luca, grande designer degli anni Settanta-Ottanta (c’è una foto di Ugo Mulas che li ritrae insieme giovani e pieni di vita). “M’accorgo adesso quanto ho imparato dal papà”. Si trattava di rubare con gli occhi la fulminea capacità di sintesi, il gusto innato del padre. Incontra poi un altro maestro speciale: Popi Chiesa, il più grande libraio antiquario italiano, nonché nonno di Pietro e Gilda, i figli di Sofia. Attraverso di lui acuisce la sensibilità per il bello e nasce la passione per le carte e per le legature. Da lì le figure di carta (carte preziose) che nascono per essere appese e apprezzate nella loro tridimensionalità. Negli stessi anni, per disciplinare la propria creatività, frequenta i laboratori di Bruno Munari. È servito? Mah. Nel frattempo Sofia chiama l’architetto Marco Bay per risistemare il giardino della casa di campagna. Ne nasce una collaborazione stimolante: “Nel suo studio ritrovo la sicurezza della mia educazione tutto quello che ho imparato da Aldo Rossi: il valore del gesto architettonico rigoroso e formale, i frammenti, un disordine discreto e l’importanza del disegno e dell’immagine – la foto – come strumento di comunicazione”. Marco la presenta ai Cappellini, vivaisti di gran fama. Seguendoli impara moltissimo. Conosce un mondo prevalentemente maschile e brianzolo (ma per Sofia la Brianza ha il profumo dell’infanzia), dove ci si sveglia all’alba, dove bisogna letteralmente mettere le mani nella terra per conoscerne le caratteristiche. “E il tuo contributo qual è?” – le chiedo – “Un punto di vista diverso, il mio, che va ad integrarsi con la sapienza pratica dei Cappellini dai quali ho imparato moltissimo”. La combinazione di una passione così totale condivisa con un architetto e una famiglia di vivaisti ha reso Sofia una persona preziosa e sensibile per chi vuole intervenire sui propri giardini. Ero venuto per parlare delle fotografie e ancora non ci siamo arrivati. Con Sofia scorriamo moltissime fotografie degli ambienti di lavoro, ma per questa mostra ha scelto come tema le serre. Come mai? “Sono un luogo rumoroso, sempre in movimento, poco femminile. Mi piace! Una serra è uno strumento di lavoro: hai tutto per realizzare un’idea”. “Ma le tue fotografie danno un’idea astratta di quel mondo”. Mi risponde: “Le serre offrono una luce filtrata: pensa al gioco dei vetri! Poi le serre sono un’architettura naturale, uno spazio chiuso che le piante invadono e modificano. Nelle serre c’è la possibilità di comporre e scomporre il mondo. Per questo mi piace fotografarle”. Cosa scrivere sul biglietto da visita? Se suggerissi a Sofia di scrivere “artista”, si arrabbierebbe moltissimo. Ma la conosco troppo bene per farlo.