Mal bianco: la pianta è una croce. Il fungo dell’oidio. Finestre bloccate senza terra né cielo: vedere la vita in forme sommerse. Sentirla lontana come si sente qualcuno. Bianco, colore che segna il distacco. Scatti di vita in apnea. Spiragli per torba e letame. In serra: colloquio speciale. Le dita sul vetro, falangi di poche parole. Qualcuna che scappa qualcuna che cerca di entrare. Qualcuna che guarda. Ma dove? Chiusa fuori guardo dentro, chiusa dentro guardo fuori: pianta-ferro davanti, ombra-pianta di dietro. Sempre. In mezzo nient’altro che vetro. “Costruiscono città senza giardino per coltivare le loro terrazze”. Umor vitreo. Pupilla strappata. Soltanto una tunica bianca. Il distacco è silenzio. Né in cielo né in terra: purgatorio di piante. L’oziorrinco notturno è un parassita comune. Visioni di ombre e di schiene piegate tra nebbia e vapore. La fitosofia elementare, ora, è medafisica dura. Diaframma di vetro. A denti stretti senza prendere fiato. Pellicola che nasce striata. Tra molecole in fiore il terrestre è un erbusto marziano nel sotto-sopra marino dove il verde incolore è l’aspetto più umano. In serra: etichettata, legata, colta, strappata, tagliata, essiccata, annegata, interrata. Piantata. Io. Vivo e vegeto.
Emilio Mazza
“In una grande città c’era un giardino
botanico, ed in questo giardino si
trovava un’enorme, serra, fatta di
ferro e di vetro. Era molto bella, con
delle snelle colonne ritorte che
sorreggevano tutta la costruzione
e su una di esse poggiavano degli
archi delicatamente arabescati,
intrecciati tra loro in una e vera
propria ragnatela di infissi metallici
che sostenevano le vetrate.
Ma la serra diventava particolarmente
bella quando c’era il sole,
che la bagnava di una luce rossa.
Allora sembrava ardere tutta, i riflessi
rossi giocavano scorrendo su di
essa come su una gigantesca pietra
preziosa dalle mille sfaccettature.
Attraverso spessi vetri trasparenti si
potevano scorgere le piante racchiuse
all’interno.
Benchè la serra fosse molto ampia,
era comunque molto stretta per loro.
Le radici s’intrecciavano, rubandosi a
vicenda il nutrimento e la linfa vitale.
I rami degli alberi si mescolavano alle
grandissime foglie delle palme e le
curvavano rompendole, ma essi stessi
si piegavano e rompevano, sbattendo
sugli infissi. I giardinieri tagliavano di
continuo i rami, cingendo di fili tut-
te le foglie perché non crescessero a
loro piacimento, ma serviva davvero
poco. Per crescere bene sono ne-
cessari spazi ampi, il proprio paese
natale, libertà. Le piante erano crea-
ture delicate e splendide, originarie
dei paesi caldi; ricordavano spesso
la loro patria e ne avevano nostalgia.
Per quanto ampio fosse il tetto
di vetro, non era mai come il cielo
luminoso.
A volte, d’inverno, i vetri si coprivano
di brina, e in quei casi l’interno della
serra era tutto buio.
Il vento fischiava, batteva sugli infissi
facendoli tremare, e la neve si
accumulava sul tetto, ricoprendolo.
Le piante rimanevano immobili ad
ascoltare l’urlo del vento, e ricorda-
vano un altro vento, dolce e tiepido,
che aveva dato loro vita e benessere.
Avrebbero voluto sentire di nuovo
il suo alito, avrebbero voluto che
facesse oscillare i loro rami e giocas-
se con le loro foglie.
Ma nella serra l’aria era immobile;
a volte la bufera d’inverno rompeva
dirittura un vetro, e allora una
corrente pungente e fredda, insieme
alla brina,volava sotto la volta
dell’edificio. Dove questa corrente si
posava, le foglie ingiallivano e si
raggrinzivano appassite.
Ma i vetri venivano ben presto
sostituiti… Datemi ascolto: cresce-
te più alte e più forti, allargate i
rami,premete contro gli infissi e contro
i vetri ed allora la nostra serra
cadrà in pezzi e saremo libere…”.
Questo racconto poetico di Vsevolod
Garsin “Attalea Princeps” spiega in
parte il senso del mio sentire, del mio
lavoro fotografico attorno alle serre
ed alla vita che si svolge attorno a
quei vetri.
“Verde. Muoversi. Bisogna piantar-
la. Troncare”. Ma quella serra i pugni
giato la foglia, insieme al suo fango.
È verde di rabbia e non vede
speranza. “Verde. Scattare”. Ripeto la
serie del luogo, comune mortale.
Se c’era del ferro, è ruggine vecchia.
Non si muove una foglia (non c’entra
il volere di Dio).
È fotosintesi. Un vicolo stretto; si
dice. L’effetto è la serra, com’è natu-
rale. C’è chi resta di sasso.
Io m’affermo da tronco. Sono “quella”
dei pugni. Fito: la pianta. Foto: grafia.
E il filo? Sofia. Come sul treno dal
finestrino.
Ascolto la musica in cuffia
e ripenso. Per piacere mi faccio più
triste. L’immagine fuori non scorre.
È tronca. Assordante. Fermata.
Acufene in silenzio. Carugo la fronte.
Green-house, glass-house. Si deposi-
ta tutto. L’indifferenza, mi dicono,
è il peggio. Ne hanno paura.
Mette disagio e toglie potere. Qui tut-
to è posato. Come se fosse previsto.
Ogni cosa si assesta per caso in un
luogo preciso, ma senza orologio.
La dustanza è più grande quando sem-
bra a portata di mano. I corpi sono
abiti appesi. La vita ha una trama
di juta; un telo di nylon con poche
aperture. Anche se evade, la pianta è
ritratta. Ferro poi foglie. Vetro e vapo-
re. Una pioggia col sole.
Fango o polvere secca per terra.
Tra dita e palato. Fiori. Adolescenti
modelli, pallidi inquieti sgraziati.
Nell’intreccio di cavi e di tronchi, di
tubi e di rami, di flebili fusti marziani,
ho visto travolti dei nomi. Nephrolep-
sis arriva esaltata da Boston.
Osmunda si placa col Phormium, te-
nace purpureo, la doppia natura di
felce e regina. Honorine Jobert, ane-
mone e giapponese, s’aggrappa alla
Musa in velluto. Parthenocissus tricu-
spida intorno alla fetida Iris.
“Verde. Muoversi. Bisogna scattare”.
Il mondo è la serra, la serra la foto,
la foto nel vetro. Col vetro di mezzo,
ne intuisco l’essenza. La serra è la
croce, la pianta il colore. Fuori è già
dentro, struttura il dettaglio.
Vicino la forma si astrae, a distanza
riprende figura. Le ombre e le impron-
te. Le sgocciolature. Il nero fa il se-
gno, il bianco è lo strappo. Ripeto la
serie. La mia foglia è troncare.
“È verde”. Mi fermo, e mi chiedo se
posso tornare.
Emilio Mazza
Sofia Meda fotografa da sempre.
Non sento più niente mentre comincio
a scattare, l’universo intorno si annul-
la, il tempo è sospeso, i mille rumori
delle serre ammutoliscono in un silen-
zio vuoto.
La visione è intuita, non studio, non
costruisco l’immagine.
Sei anni fa è cominciata la serie di
fotografie nelle serre.
Nessuna attenzione specifica alla
tecnica, la macchina fotografica
è semplice strumento di riproduzione
del reale.
Le serre sono un posto magico.
Una luce speciale - ombre, specchi,
frammenti di... La serra è un mondo,
come una casa dove l’ordine è tenta-
to, ma vince il disordine, così una
serra racchiude la natura che non
rispetta che le proprie regole - le
piante sono ribelli, la loro crescita è
libera, lasciano segni, tracce del loro
passaggio anche dopo essere state
rimosse. Foto autobiografiche.
Sofia Meda guarda alle piante rac-
chiuse e, senza toccarle o muover-
le, sceglie di riprenderle raccolte in
gruppi casuali che contrastano con
la struttura meticolosa e matematica
delle serre. Le sue opere sono esercizi
di contemplazione che svelano i
dettagli più sconosciuti, i particol-
ari nascosti e le storie rimaste celate
sotto la nebbia.
La natura è un repertorio inesauribile
di storie e di coincidenze impreviste:
grazie a una lunga contemplazione,
infatti, riesce a trasformare fenomeni
atmosferici, paesaggi fatti di ferro e
vetro e dettagli naturali in panorami
sublimi e vedute romantiche.
Le sue fotografie si dipanano come
esplorazioni di mondi lontanissimi.
Con lo stesso sguardo maniacale rac-
coglie dettagli dimenticati e all’appa-
renza insignificanti, e li trasforma in
un’analisi microscopica dei segni del
tempo.
Fotografia o pittura? Ghirri, Caravaggio,
Mondrian?
Le fotografie di Sofia Meda sono mol-
to lontane dall’essere arbitrarie.
Le linee nella composizione sembrano
calcolate in maniera rigorosa e
matematica. Costruzioni architettoni-
che di paesaggi surreali, onirici,
solidamente appoggiati su piani pro-
spettici.
Una nuova forma di vita organica.
L’arte del vedere luoghi e spazi im-
maginari. Un alfabeto visivo concet-
tualmente elaborato per fare apparire
l’invisibile, in cui protagonista è il
mistero dell’immagine, lo stupore di
chi guarda.
Barbara Carneglia